Cassazione penale, sentenza n° 13213/16 – Esercizio abusivo della professione medica

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Cassazione penale, sentenza n° 13213/16 – Esercizio abusivo della professione medica

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Pubblicato in Cassazione Penale · 19 Aprile 2016
Tags: Abusivismo
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La Corte di Cassazione ha affermato che “è configurabile il reato di esercizio abusivo della professione, previsto dall’art. 348 c.p., nel caso di attività chiropratica, che implichi il compimento di operazioni riservate alla professione medica, quali l’individuazione e diagnosi delle malattie, la prescrizione delle cure e la somministrazione dei rimedi, anche se diversi da quelli ordinariamente praticati”.

FATTO: La Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza emessa il 17 gennaio 2012 dal Tribunale di Pistoia nei confronti di E.G.G., C.G., D.D., L.C.C. e B.C., li ha assolti dal reato di truffa per insussistenza del fatto; ha assolto la D. anche dal reato di associazione per delinquere e dalla contravvenzione di cui al R.D. n. 1265 del 1934, art. 193 per non aver commesso il fatto, e ha confermato nel resto la sentenza impugnata con riguardo ai reati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di più delitti di esercizio abusivo della professione sanitaria, di esercizio abusivo della professione sanitaria e medica e di esercizio di un ambulatorio medico sanitario in assenza della prescritta autorizzazione regionale, rideterminando conseguentemente la pena inflitta. La vicenda ha ad oggetto l’esercizio abusivo della professione medico-sanitaria da parte di G.E.G., meglio nota come “(OMISSIS)”, figura carismatica, ritenuta dotata di poteri taumaturgici ed esorcistici, presso Villa (OMISSIS), ove convergevano numerosi malati, ai quali venivano praticati massaggi corporei con una crema non meglio precisata, cui seguiva l’imposizione delle mani con benedizione e preghiera di liberazione.
DIRITTO: Con riferimento al caso di specie la Corte di Cassazione ha rilevato che “può pertanto escludersi che i massaggi praticati con frequenza ai pazienti non avessero finalità terapeutica – la Villa non era una beauty farm, come efficacemente detto dalla Corte – soprattutto, perché si inserivano in una sequenza, che prevedeva il colloquio preventivo, logicamente ritenuto costituire la fase anamnestico-diagnostica, cui seguiva il massaggio con imposizione delle mani e successiva benedizione e preghiera. I massaggi erano, quindi, praticati per lenire i dolori o le sofferenze fisiche, lamentate dai malati, che si rivolgevano con fiducia alla G., ottenendone promessa di guarigione. La circostanza che nessuna persona abbia subìto danni ed il totale affidamento dei pazienti nelle proprietà taumaturgiche e nelle dott. mistiche della G. non possono escludere la rilevanza penale delle attività praticate, tipiche dell’attività medico-sanitaria, senza alcuna qualificazione professionale”. È, infatti, configurabile il reato di esercizio abusivo della professione, previsto dall’art. 348 c.p., nel caso di attività chiropratica, che implichi il compimento di operazioni riservate alla professione medica, quali l’individuazione e diagnosi delle malattie, la prescrizione delle cure e la somministrazione dei rimedi, anche se diversi da quelli ordinariamente praticati (Sez. 6 n. 30590 del 10/4/2003, Bennati, Rv. 225685); analoga la valutazione per la pratica dell’agopuntura (Sez. 6, n. 22528 del 27/03/2003, Carrabba, Rv. 226199) e soprattutto, per i massaggi, laddove possa escludersi, come nel caso in esame, che fossero destinati a mantenere il corpo in perfette condizioni fisiche. Infatti, il massaggiatore professionale, istituito con L. 23 giugno 1927, n. 1264, consegue un titolo per l’esercizio dell’arte ausiliaria della professione sanitaria di massaggiatore, che abilita solo al trattamento per migliorare il benessere personale su un soggetto sano, integro, senza sconfinamenti in competenze mediche, terapeutiche o fisioterapiche (Sez. 6, n. 144 del 24/01/70, Brazzalotto, Rv. 114238) che ha ritenuto la rilevanza penale del massaggio praticato a scopo curativo, dato che in tal caso non può escludersi la pericolosità del metodo di cura adottato, le cui reazioni sulla persona del paziente, in relazione alla patologia da cui è affetto, possono essere valutate soltanto da chi risulta abilitato all’esercizio della professione sanitaria, onde il metodo di cura determina, fra l’altro, la necessità di praticarlo sotto il controllo di un medico. È, pertanto, infondata l’eccezione circa la mancata indicazione in sentenza degli atti tipici della professione medica nell’attività della G. e corretta l’argomentazione della Corte circa la sussistenza dei reati di esercizio abusivo della professione medica e di allestimento di un ambulatorio sanitario non autorizzato, frequentato da un foltissimo numero di pazienti. Il reato di esercizio abusivo della professione non è prescritto, in quanto la contestazione è aperta dal 2005 ad oggi: considerato che il reato di esercizio abusivo della professione è reato solo eventualmente abituale, la reiterazione degli atti tipici dà luogo ad un unico reato, il cui momento consumativo coincide con l’ultimo di essi, vale a dire con la cessazione della condotta (v. Sez. 6, n.15894 del 08/01/2014, Erario, Rv. 260153), cosicché, pur ancorando il termine di cessazione della condotta alla data di esecuzione dell’ordinanza cautelare – 11 giugno 2010 – e tenendo conto delle sospensioni verificatesi nel processo di primo grado, ricavabili dalla sentenza, il termine massimo non è ancora decorso.




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