Sanità Campania al collasso,perché il ruvido De Luca ha ragione

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Sanità Campania al collasso,perché il ruvido De Luca ha ragione

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Pubblicato in SANITA' · 31 Gennaio 2017
[image:image-0]di Ettore Mautone

Sanità Campania al collasso, perché il ruvido De Luca ha ragione

In principio fu il modello campano di salute di bassoliniana memoria: universalistico e solidale ma dai bilanci colabrodo. Poi giunse il commissariamento di Asl e ospedali a cavallo con la successiva giunta guidata, nel 2010, da Stefano Caldoro che intraprese la tortuosa via del pareggio dei conti in rosso della Sanità. Per finire ora tocca ai Lea, Livelli essenziali di assistenza, calati a picco negli anni e da riportare a galla mentre il ruolo di commissario è aspramente conteso tra Regione e governo nell’incrocio tra le logiche e le opportunità della politica e le necessità contingenti che chiedono di voltare pagina in un settore delicato come quello della tutela della salute.
In questa difficile partita il presidente della Regione Vincenzo De Luca, ha giocato tutte le sue carte negli ultimi mesi commettendo anche molti e gravi errori. Come quando è scivolato in basso nei toni della campagna pre­referendaria che gli sono costati un’indagine giudiziaria per presunto voto di scambio, che ne ha poi di fatto intralciato il passo verso l’incarico di commissario al quale aspirava, prestando il fianco anche ad aspre critiche politiche nel suo stesso partito e consegnando preziose carte da giocare a chi, sui tavoli romani, spinge per lasciare al loro posto gli attuali delegati di governo nel ruolo di commissari. O come quando all’indomani dei fati di Nola, con un pronto soccorso ridotto ad ospedale da campo, ha ceduto ad un giudizio forse affrettato su una vicenda probabilmente ancora da chiarire. Però, la sua richiesta di porre fine al commissariamento del governo per assumere personalmente la responsabilità della sanità campana è sacrosanta. E, per capire pienamente la natura e la portata del duro scontro istituzionale in corso, che vede da mesi contrapposti, sul Piano politico (e non solo), la Regione Campania da un lato e il ministero della Salute dall’altro, bisogna spiegare bene.

Quello che tutti chiamano “commissariamento” della Sanità campana in pratica si traduce nella pressoché totale etero­direzione programmatica della vita delle Asl e degli ospedali campani: dal 28 luglio del 2009 il pallino di questa delicata materia da cui dipende il diritto alla tutela della salute dei cittadini è infatti affidata a manager di nomina governativa. Commissari, appunto, che emanano atti, programmi, piani (in forma di decreti), la cui attuazione è stata demandata ai direttori generali delle Asl e degli ospedali ma il cui ruolo gestionale è da anni molto limitato, sottoposto al continuo vaglio, spesso lungo e burocratizzato, sia preventivo sia in itinere (ogni quattro mesi) da parte dei ministeri cosiddetti affiancanti. O meglio vigilanti: Salute ed Economia. Sul Piano tecnico tutto ciò, in otto anni, si è tradotto in null’altro che un Piano di risanamento contabile che ha agito con la scure, e senza andare troppo per il sottile, indiscriminatamente, su tutte le voci di spesa della sanità regionale.

Spesso in maniera ragionieristica ­ e senza alcuna valutazione di merito riguardo ai servizi essenziali, ai reali sprechi, salvaguardando quello che funzionava per gettare alle ortiche ciò che era inutile, ovvero ridondante e inappropriato ­ i tagli hanno colpito duro il personale, la spesa farmaceutica, le forniture di beni, servizi, le tecnologie, gli investimenti di edilizia sanitaria, il budget dei centri accreditati. Tutto è finito nel tritacarne che serviva per il pareggio di bilancio nel superiore interesse della tenuta dei conti pubblici. Ciò in barba a un criterio molto più articolato che avrebbe, nelle intenzioni originarie, dovuto recuperare risorse incidendo il bisturi sul piano delle diseconomie strutturali di un sistema sbilanciato e ospedalocentrico e con spese costantemente superiori ai ricavi in tutte le strutture ospedaliere pubbliche.

Tanto per ricordare: sin dal 2010 il Piano ospedaliero, contenuto nel decreto commissariale n. 49 di quell’anno, a lungo vagliato, condiviso e per anni rimaneggiato dai suddetti ministeri, avrebbe dovuto conseguire risparmi strutturali per la diseconomica sanità campana per circa 260 milioni di euro annui. Un Piano non solo mai attuato ma che non ha mai dato i frutti attesi. Tant’è che nel 2016 si è azzerato tutto e ricominciato daccapo. La maggior parte dei risparmi con cui si è raggiunto l’agognato pareggio dei conti lo si è dunque ottenuto grazie alle tasse locali (con le aliquote di Irpef e Irap ai valori massimi), in virtù dei tagli al personale (con il blocco totale del turn­over che ha fatto perdere circa 15 mila camici bianchi disarticolando servizi essenziali e presidi periferici senza alcuna scelta politica su quale livello di assistenza garantire e salvaguardare) e in ragione dei ticket per la farmaceutica. Tant’è che il motore sempre acceso del deficit – come ha sempre ripetuto in questi anni chi di management sanitario se ne intende – sarebbe tornato a camminare e macinare debiti non appena la stretta dei tagli si fosse allentata.
Sullo sfondo, uno dei nodi politici principali ­ su cui almeno una parte del debito della sanità campana si è aggrovigliato, ossia la sottostima del fondo sanitario regionale, non è mai stato sciolto. Qui occorre fare un inciso: il riparto alle Regioni della torta nazionale dei finanziamenti per la Salute risponde, sin dal 1992 (quando fu varata la riforma 502 che introdusse le Asl al posto delle Usl) ad un unico criterio principe: l’entità della popolazione anziana che assorbe più risorse per le cure trascurando ogni altro parametro (come povertà relativa, svantaggio sciale, incidenza di malattie croniche ecc.) per valutare i fabbisogni di risorse con cui correggere il valore attribuito, per la salute, ad ogni singolo cittadino. Pertanto la quota procapite assegnata a ogni cittadino campano è storicamente la più bassa del paese. Se si adeguasse tale budget alla media nazionale si potrebbero assumere medici e infermieri ed effettuare investimenti che in una situazione risanata dal punto di vista contabile consentirebbero di intercettare almeno una parte dei campani che ogni anni decidono di curarsi fuori regione evitando di attribuire così a monte, alla Lombardia, piuttosto che all’Emilia, alla Toscana o al Piemonte, circa 300 milioni di euro che hanno il non trascurabile risvolto di evitare che quelle stesse regioni vadano in rosso.

Un disequilibrio che trova radici in Conferenza Stato Regioni ma che trae linfa vitale nel sostanziale atteggiamento pilatesco del governo che non ha mai voluto risolvere la questione. Ecco, da questo punto nevralgico si può iniziare per chiedersi se sia legittimo o meno che il governatore della Regione Campania Vincenzo De Luca assuma la piena responsabilità politica del rilancio dei Livelli di assistenza in Campania, assumendo, ora che la legge finanziaria lo consente di nuovo, anche il ruolo di commissario per la Sanità regionale.

Proprio De Luca sin dal suo insediamento ha fatto propria la battaglia delle Regioni del Sud guidando il fronte dei Governatori per il riequilibrio del riparto del fondo sanitario nazionale. Una rivendicazione da condurre in Conferenza Stato­Regioni ma che, al venir meno dell’unanimità delle decisioni in quell’Assise, sposta l’asse politico delle decisioni in capo al Governo centrale. Cosa impedisce oggi, dunque, al governo di Roma, di riconoscere De Luca come responsabile dei livelli di assistenza della sanità campana visto che non è lui ad aver generato l’antico buco ora risanato? Cosa impedisce di lasciare che sia lui a muovere i fili del governo della salute regionale, senza anelli burocratici intermedi, salvo poi, come prevede del resto la legge, chiedergli conto dei risultati ottenuti da qui a sei mesi e poi a un anno? Certo, in questi anni il commissariamento è stato inteso anche come camera di compensazione politica dei mutevoli equilibri tra maggioranza e opposizione ora del governo centrale ora di quello locale. Una graticola su cui spesso e volentieri sono stati sacrificati provvedimenti, azioni e anche nomine intese per urgenti e invece lasciate a decantare per mesi se non anni. Ora quel che è certo è che lo stato di deliquio che ha raggiunto il servizio sanitario campano chiede un cambio di passo, decisioni rapide, unione di intenti e un lavoro serrato per recuperare in breve tempo ritardi annosi e irrisolti che pesano come un macigno sui livelli di assistenza in Campania e da qui sulle sorti dei cittadini a cui sono negati diritti fondamentali e che scontano la più bassa vita media del Paese e la più alta mortalità evitabile. Non è detto che De Luca riesca ma almeno dovrebbe poter provare e i cittadini e lo stesso ministero su questo giudicare, per promuovere o magari bocciare.

Il Mattino.it



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